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Por Luca Martinelli e Giulio Sensi | L'Altreconomia
Quando vi sveglierete il 22 dicembre, finalmente consapevoli che il mondo "non finiva quel giorno" (cit.), cioè che nessun Maya ha mai detto che il 21 dicembre 2012 la vita degli esseri umani sarebbe scomparsa dal Pianeta, ricordatevi degli ultimi Maya. Quelli che vivono nel Sud-est messicano, e la fine del mondo l'hanno già vista, oltre che annunciata: non era il 21 ma il 22 dicembre, di quindici anni fa.
Il 22 dicembre del 1997 la furia dei gruppi paramilitari si scagliò sulla piccola comunità di Acteal, nella zona degli Altos del Chiapas. Era in corso una “guerra di bassa intensità”: da una parte l'esercito messicano e gruppi paramilitari, dall'altra l'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), l'esercito indigeno che nel gennaio del 1994 si era sollevato in armi per chiedere dignidad, justicia y libertad per le comunità indigene del Chiapas.
Le vittime del massacro di Acteal, 45
indigeni assassinati senza che nessuna autorità pubblica muovesse un
dito, non erano zapatisti, però. Facevano parte di un'associazione
pacifista, Las Abejas, nata cinque anni prima, e quasi alla vigilia di
Natale erano riuniti in chiesa a pregare per la pace.
Las Abejas è nata seguendo il lavoro della Diocesi guidata dal vescovo Don Samuel Ruiz, il Tatik (padre, in tzeltal) degli indigeni, scomparso quasi due anni fa, e da vent'anni si batte senza armi per gli stessi obiettivi degli zapatisti: la pace con dignità.
Quel 22 dicembre il tempo si fermò. Non solo in Chiapas, non solo nel Messico, ma in tutto il mondo. E anche in Italia, un Paese che era -allora- capace di indignarsi, e di fare qualcosa per le ingiustizie del Pianeta. Se ne discusse alla Camera, con un'interrogazione promossa dall'onorevole Ramon Mantovani. Ne scrissero, quasi immediatamente, i grandi giornali: “Gli squadroni della morte arrivano con il buio. Appena si spegne il sole, dietro le ultime montagne del Chiapas, tra i contadini di molte contrade appollaiate sui monti al confine con il Guatemala, s' insinua una paura tangibile che si materializza in due parole: la 'Maschera Rossa'. I gruppi paramilitari della provincia di Chenalho dov' è accaduto il massacro di Acteal si sono soprannominati così. Da mesi terrorizzano le basi d' appoggio degli zapatisti con una tecnica molto nota. Con la complicità della notte calano sui villaggi, rassicurati dalle loro uniformi scure e dai loro AK-47, e seminano paura, maltrattano, saccheggiano, rubano ed esigono quell' assurda 'tassa di guerra' che qui gran parte dei campesinos si rifiuta di pagare” scrisse il 6 gennaio '98 Carlo Pizzati, inviato a San Cristobal de Las Casas per “la Repubblica”.
La risposta più importante, però, venne dai molti attivisti che reagirono dando corpo a una stagione di solidarietà con gli indigeni del Chiapas oggi ridotta al lumicino: le testimonianze della mattanza mossero la solidarietà, che niente ha potuto di fronte alla mancanza di giustizia: dopo periodi di detenzione troppo brevi, molti dei responsabili della strage girano ancora liberamente per la regione e la loro liberazione ha facilitato il riformarsi di alcune bande paramilitari così utili alla strategia di contro-insurrezione del Governo federale e di quello del Chiapas.
È la stessa impunità che vivono gli autori di altre stragi che insanguinarono la stagione della repressione, come quella della comunità di El Bosque, sempre negli Altos de Chiapas. L'impunità è scesa nell'oblio, la lotta per la giustizia no. Per i media italiani, specie quelli mainstream, oggi il Messico “pesa” solo in quanto narco-Stato e per il problema dei femminicidio. È passato in secondo piano il tema dei diritti umani, e in particolare quelli delle popolazioni indigene, che pure dovrebbero essere tutelati anche in virtù dell'Accordo di libero scambio firmato dall'inizio del millennio dal Messico e dai Paesi dell'Unione europea.
Noi, però, non abbiamo dimenticato Acteal. Non possiamo farlo. Se oggi leggete le nostre firme su “Altreconomia”, o i nostri nomi come animatori di associazioni ed esperienze di movimento, è perché nel dicembre del 1998, un anno dopo, incontrammo un “testimone” della strage, che ci raccontò il peso dell'ingiustizia. E ci spinse a lavorare al suo fianco, per cambiare le regole.
Oggi chiediamo anche a voi di farvene carico: in questi giorni, anche in Italia, ogni mezzo d'informazione e di comunicazione è invaso da articoli che riflettono (a vanvera) della “profetica” scadenza della fine del mondo annunciata dai Maya.
A tutti chiediamo di alzare lo sguardo e guardare ad una vera notizia, l'ingiustizia e l'impunità di chi seminò morte e terrore in un popolo di pace che chiedeva solo rispetto e dignità. Invece che alla “fine del mondo” potremmo contribuire all'inizio di una nuova stagione, per non far inghiottire la giustizia da un enorme buco nero.
Las Abejas è nata seguendo il lavoro della Diocesi guidata dal vescovo Don Samuel Ruiz, il Tatik (padre, in tzeltal) degli indigeni, scomparso quasi due anni fa, e da vent'anni si batte senza armi per gli stessi obiettivi degli zapatisti: la pace con dignità.
Quel 22 dicembre il tempo si fermò. Non solo in Chiapas, non solo nel Messico, ma in tutto il mondo. E anche in Italia, un Paese che era -allora- capace di indignarsi, e di fare qualcosa per le ingiustizie del Pianeta. Se ne discusse alla Camera, con un'interrogazione promossa dall'onorevole Ramon Mantovani. Ne scrissero, quasi immediatamente, i grandi giornali: “Gli squadroni della morte arrivano con il buio. Appena si spegne il sole, dietro le ultime montagne del Chiapas, tra i contadini di molte contrade appollaiate sui monti al confine con il Guatemala, s' insinua una paura tangibile che si materializza in due parole: la 'Maschera Rossa'. I gruppi paramilitari della provincia di Chenalho dov' è accaduto il massacro di Acteal si sono soprannominati così. Da mesi terrorizzano le basi d' appoggio degli zapatisti con una tecnica molto nota. Con la complicità della notte calano sui villaggi, rassicurati dalle loro uniformi scure e dai loro AK-47, e seminano paura, maltrattano, saccheggiano, rubano ed esigono quell' assurda 'tassa di guerra' che qui gran parte dei campesinos si rifiuta di pagare” scrisse il 6 gennaio '98 Carlo Pizzati, inviato a San Cristobal de Las Casas per “la Repubblica”.
La risposta più importante, però, venne dai molti attivisti che reagirono dando corpo a una stagione di solidarietà con gli indigeni del Chiapas oggi ridotta al lumicino: le testimonianze della mattanza mossero la solidarietà, che niente ha potuto di fronte alla mancanza di giustizia: dopo periodi di detenzione troppo brevi, molti dei responsabili della strage girano ancora liberamente per la regione e la loro liberazione ha facilitato il riformarsi di alcune bande paramilitari così utili alla strategia di contro-insurrezione del Governo federale e di quello del Chiapas.
È la stessa impunità che vivono gli autori di altre stragi che insanguinarono la stagione della repressione, come quella della comunità di El Bosque, sempre negli Altos de Chiapas. L'impunità è scesa nell'oblio, la lotta per la giustizia no. Per i media italiani, specie quelli mainstream, oggi il Messico “pesa” solo in quanto narco-Stato e per il problema dei femminicidio. È passato in secondo piano il tema dei diritti umani, e in particolare quelli delle popolazioni indigene, che pure dovrebbero essere tutelati anche in virtù dell'Accordo di libero scambio firmato dall'inizio del millennio dal Messico e dai Paesi dell'Unione europea.
Noi, però, non abbiamo dimenticato Acteal. Non possiamo farlo. Se oggi leggete le nostre firme su “Altreconomia”, o i nostri nomi come animatori di associazioni ed esperienze di movimento, è perché nel dicembre del 1998, un anno dopo, incontrammo un “testimone” della strage, che ci raccontò il peso dell'ingiustizia. E ci spinse a lavorare al suo fianco, per cambiare le regole.
Oggi chiediamo anche a voi di farvene carico: in questi giorni, anche in Italia, ogni mezzo d'informazione e di comunicazione è invaso da articoli che riflettono (a vanvera) della “profetica” scadenza della fine del mondo annunciata dai Maya.
A tutti chiediamo di alzare lo sguardo e guardare ad una vera notizia, l'ingiustizia e l'impunità di chi seminò morte e terrore in un popolo di pace che chiedeva solo rispetto e dignità. Invece che alla “fine del mondo” potremmo contribuire all'inizio di una nuova stagione, per non far inghiottire la giustizia da un enorme buco nero.
Fuente: Altreconomia
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